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Appunti per un itinerario americano

Elisabetta Trincherini sull’archivio di Gianni Pettena

L’archivio di Gianni Pettena, che documenta la sua attività come artista, teorico, critico e curatore, nel 2018 è stato trasferito dalla sua casa studio sulla collina di Fiesole al CCA. Non potendo dar conto in maniera esaustiva di tutto ciò che l’archivio contiene è però possibile costruire un percorso che a maggior ragione giustifica la presenza di questi materiali in un centro di ricerca del nord America.

La prima produzione di Pettena, in Italia a metà degli anni Sessanta, è contraddistinta da lavori dettati da contingenze politiche tutte italiane. Ne sono esempio le opere, di carattere installativo, poiché realizzate a mano con cartone ondulato e punti metallici, Carabinieri (Novara, 1968), per l’artista parola antica e inadeguata a ogni riferimento esistenziale. Milite ignoto (Ferrara, 1968). Nella realtà si tratta di un militare italiano caduto al fronte durante la prima guerra mondiale e sepolto a Roma all’Altare della Patria, divenuto poi uno dei simboli principali della retorica nazionalista del fascismo. Nonostante sia diventato, con l’avvento della repubblica, apolitico e simbolo dell’identità nazionale italiana, politici e generali hanno continuato a utilizzarlo durante cerimonie retoriche, l’ipocrisia delle quali è il bersaglio della critica dell’artista. Così il terzo episodio di quella serie, Grazia & Giustizia (Palermo, 1968), in cui spicca la “&” commerciale, lanciava un grido d’accusa contro l’iniqua condanna inflitta al poeta omosessuale Aldo Braibanti. Con queste opere Pettena lamenta lo scollamento tra la società reale, fatta di individui con bisogni concreti, e uno stato vecchio e inadeguato alle istanze contemporanee, soprattutto a quelle dei giovani, categoria alla quale egli appartiene.

Stesso imprinting per altri lavori “italiani” di quegli anni, come Laundry (Como, 1969), in cui le clothes-lines nella piazza del Duomo ricordano come la città sia luogo di ingiustizia ed emarginazione sociale. Questi lavori riflettono il confronto dialettico con la società e introiettano una dimensione che non può prescindere dalla sfera politica.

A precederli c’è l’unica incursione compiuta dall’autore nel mondo del design, anche se non legato alla progettazione per l’industria ma alla volontà, come spiega l’autore, di “progettarsi la vita” in ogni suo risvolto. Si tratta del progetto del suo studio d’artista che Pettena immagina e realizza ancora da studente, da lui definito “la sua prima occasione d’architettura”. In uno spazio architettonico anomalo, un volume di 11 metri, sette per sei con una grande vetrata, inventa una serie di arredi tra cui il più noto divano Rumble (1967), una superficie soffice, quadrata, che si può scomporre e usare, vivere a proprio piacimento e, se si ha meno di un anno, si può pure imparare a camminarci dentro come è successo a Giulia, sua figlia.

Il trasferimento di Pettena negli Stati Uniti (1969/70), chiamato come “artist in residence” inizialmente al Minneapolis College of Art and Design, produce un’evoluzione nella sua produzione. La dimensione politica, figlia delle contingenze italiane, si sfuma a beneficio del contatto più diretto e meno mediato con la natura. Non si modifica invece l’idea di costruire per sottrazione di identità, senza usare calce e mattoni ma gli strumenti del pensiero o della natura, e se l’architettura già esiste, va “rinaturalizzata”. Così nascono i lavori con i ghiacci Ice House I e Ice House II (Minneapolis, 1971; 1972) nei quali una scuola destinata alla demolizione, e una villetta della middle class, vengono inglobate in calotte di ghiaccio. Qui l’aggiunta di un materiale naturale, l’acqua che, sfruttando le gelide temperature della notte invernale del Minnesota, si trasforma in ghiaccio, ci restituisce la monumentalità di un’assenza. Lo stesso accade nei grandi vuoti rappresentati dai “tagli” sugli edifici realizzati da Gordon Matta-Clark. Se Pettena costruisce per sottrazione di identità del concetto tradizionale di “architettura”, Gordon Matta-Clark costruisce per sottrazione di materia. Sono loro secondo James Wines l’anima più pura, e per certi versi poetica, del decostruzionismo in architettura. Matta Clark come Pettena guarda alla casa tipica della middle class americana per decostruire con il suo celebre Splitting (1974).1 Li unisce anche la loro educazione da architetti e la pratica che travalica i confini della disciplina e della professione.

Il termine “Anarchitettura” anche li accomuna, lo coniano separatamente, Pettena per primo, e all’insaputa l’uno dall’altro, ma con i medesimi presupposti. Pettena edita un libro con questo titolo, l’Anarchitetto (Guaraldi, 1973), recensendo il quale spiega il proprio lavoro in questi termini: “quel genere di architettura che si può finalmente non distinguere dall’arte”. Matta Clark idea il nome “Anarchitecture” (1975) volto a raccogliere un collettivo di artisti americani che vi si riconoscono e lo cita in molte lettere, parte integrante della sua corrispondenza conservata al CCA, come quella che scrive a Robert Leydenfrost, rappresentante dell’Art and Design program del World Trade Center, il 16 gennaio del 1975.


  1. James Wines, “Gianni Pettena radicale gentile”, in AA. VV., Gianni Pettena, Silvana Editoriale, Milano, 2002, p. 36 

Così come un’altra definizione che lo stesso Matta Clark dà del proprio lavoro sembra potersi correttamente adattare alla pratica operativa tanto sua quanto di Pettena: “My idea is to find an abandoned building or one ready for demolition and do some nonarchitectural revisions on it”. (cfr. lettera a James Harithas, Museum of Contemporary Art, 21 gennaio 1975).

Comprimere fino a quasi annullare la funzione abitativa umana per suggerirne un’altra è tema anche della Clay House (Salt Lake City 1972), altra casa della middle class, le une identiche alle altre, che Pettena sottrae al suo isolato facendola scomparire (come prima aveva fatto col ghiaccio) grazie a uno spesso strato di creta che la ricopre interamente, finestre comprese. Viverla dall’interno per gli umani diventa impossibile, non è così per gli insetti che trovano rifugio nei cretti che si formano nella creta essiccata.

Altra rinaturalizzazione è quella del Tumbleweeds Catcher (Salt Lake City, 1972), mentre nell’importante serie di immagini fotografiche dal titolo: About Non-Conscious Architecture (Arizona e Colorado 1972-73) Pettena compie una catalogazione delle “not made by architects architectures” rilevate nel corso dei suoi viaggi di quel periodo negli Stati Uniti.

Per il principio dei vasi comunicanti l’attività di Pettena teorico e critico ha molto introiettato della sua pratica di artista e viceversa. Un progetto che vede la luce a metà degli anni ’90 ma la cui gestazione è in essere dai primi anni Ottanta (la corrispondenza ne dà ampia prova) è la restituzione, attraverso una grande mostra agli Uffizi a Firenze, della figura di Frederick Law Olmsted (1822-1903), progettista, tra gli altri, di Central Park, e inventore di una professione, il landscape designer (e non invece “landscape gardening”), prima ancora che del concetto stesso di parco urbano. La ricca documentazione presente nel fondo ci fa capire come Pettena si sia approcciato alla materia studiando tutto ciò che esisteva di edito in italiano e inglese sull’autore, contattando la Olmsted Foundation (ampia anche in questo senso la documentazione del fondo) per visionare i disegni originali e chiederne poi il prestito per la mostra. Dai suoi appunti, redatti sulla base degli studi, poi parzialmente confluiti nel catalogo della mostra, Pettena enuclea i principi che hanno contraddistinto la progettazione dell’environment. Tra questi il fatto che il landscape design debba prevedere un’analisi sociale e che, per essere necessariamente democratico, debba produrre una maggiore uguaglianza tra i cittadini. Ma anche che debba intendere le città quali centri vitali indispensabili di cultura e civiltà senza dimenticare che ogni alterazione dei processi naturali, anche minima, ha profonde conseguenze sull’ecologia dell’area circostante. Va riconosciuta la necessità che la progettazione dell’environment sia un lavoro di équipe di esperti di scienze sociali e naturali, di architetti, ingegneri e che per portarla a termine la politica non debba intervenire. Nei suoi appunti Pettena enuclea l’effetto “salutare” che il progettista americano riteneva avesse il suo stile di landscape design lasciando trasparire la sua volontà di ottenere con il proprio design un’influenza sull’intero organismo umano. La convinzione cioè che la dimensione del design non si dovesse risolvere solo nell’ambito della creazione e decorazione ma dovesse avere un’utilità nei confronti dei bisogni dell’uomo. L’idea che la grandezza della nazione americana passasse dal suo patrimonio naturale, avanzata da Olmsted per primo, è elemento che Pettena è tra i primi e in maniera più convincente a recepire ed evidenziare e che certamente condivide nella sua pratica di artista e progettista.

Far conoscere in Italia, e più ancora a Firenze (città da sempre votata al Medioevo e al Rinascimento), le punte più avanzate del dibattito architettonico contemporaneo affascina Pettena come critico. Questo significa ancora una volta passare dagli USA con una riflessione su White VS. Grey, ovvero tra i seguaci dell’eredità modernista e coloro che, a cominciare da Learning from Las Vegas, si sporcano con il vernacolo. Ne nascono due mostre all’Accademia delle arti del disegno di Firenze, su Richard Meier e Robert Venturi.

In una conversazione inedita tra Pettena e Meier, presente nel fondo, emergono posizioni opposte sull’arte: mentre Meier sostiene che “il significato che assume ogni realizzazione in architettura deve andare al di là del contemporaneo o di un’ideologia contingente, l’arte troppo legata al suo momento non ha grande significato”, per Pettena è necessario usare “un linguaggio che vada al di là delle funzioni pratiche richieste all’architetto” (Richard Meier in conversazione con Gianni Pettena 13/12/1981).

Ma è probabilmente la posizione di Maier nei confronti della natura, che si riflette sulla gestione del colore nei progetti dell’architetto americano, ad affascinare Pettena. “In tutti gli spazi in cui non c’è una vita riflessa da uno scenario naturale cerco di usare il colore diffusamente e in modo differenziato”, (si veda per esempio il Bronx Development Center) […] ma negli spazi in cui la vita della natura interviene e penetra il colore mi sembra artificiale e non necessario” (Ivi). E qui gli esempi non mancano tra le molte architetture di edilizia privata, bianche e immerse nella natura da Casa Smith a Casa di Old Westbury.

L’attività didattica di Pettena pure riveste un interesse specifico, quella ancora in USA si contraddistingue per l’utilizzo dei suoi studenti in performance, divenute centrali nel lavoro dell’artista, come Wearable Chairs (Minneapolis, 1971), e installazioni come Paper/Midwestern Ocean (Minneapolis, 1970).

Una volta in Italia Pettena pure propone una partecipazione diretta degli studenti attraverso la messa in opera di un laboratorio di studio e applicazione di tecnologie alternative nel cui programma figurano, tra le altre, attività come il riciclaggio di rifiuti organici, la potabilizzazione di acque chiare, l’utilizzo di energia eolica, etc. Ma anche sostiene e alimenta un “seminario verticale”, spazio gestito dagli studenti che sfrutta le risorse presenti in facoltà in termini di luoghi, materiali, professori. È in questo spazio che Pettena riuscirà a far parlare alcuni degli esponenti più significativi dell’arte contemporanea, tra i quali gli americani Chris Burden, Terry Fox, Bill Viola, tutti di passaggio a Firenze, oltre a una serie di italiani come Boetti, Merz e Kounellis.

Non ultimi, gli argomenti dei corsi insegnati da Pettena all’università di Firenze, i cui programmi sono conservati nel fondo, documentano la centralità di tematiche come le sperimentazioni californiane degli anni Sessanta, la New York degli anni Sessanta/Settanta. Ma anche il nomadismo e la storia dell’architettura e di chi produce oggetti non per cultura, ma “per necessità”. L’architettura spontanea non è solo delle ere primitive ma per Pettena si dà tutte le volte in cui l’uomo, in costante rapporto con la natura, riesce a migliorare le sue condizioni di sopravvivenza subendo una crescita conscia a livello culturale. Questo dimostrano la ricezione e il trasferimento di autori come Bernard Rudofsky e Victor Papanek.

Il tema dell’uomo, non architetto, che costruisce per necessità e per sé stesso, in rapporto con la natura, è centrale anche nella corretta riattribuzione al suo proprietario di Casa Malaparte.

Elisabetta Trincherini è stata in residenza al CCA nel gennaio 2023 nell’ambito di Find and Tell, un programma che promuove nuove letture che evidenziano la rilevanza intellettuale di particolari aspetti della nostra collezione oggi.

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